Vivere in Italia come extracomunitario  africano è diventato molto più difficile che in passato. Fino alla fine del secolo scorso le persone di colore circolavano per strada tranquillamente, non suscitando nei passanti alcuna diffidenza, ma anzi era segno di una società aperta e ben disposta nei confronti di una cultura multietnica che aspirava ad abolire i confini, imponendosi su ogni forma di provincialismo mentale,  verso un’integrazione all’insegna della fratellanza e delle pari opportunità.

Attualmente in Italia, già da diversi anni e come del resto accade nella maggior parte dei paesi europei, la situazione è molto cambiata. L’approccio alle persone di colore è fortemente condizionato da pesanti pregiudizi e in molti casi purtroppo da fondate diffidenze. L’enorme afflusso di migranti negli ultimi decenni è stato causato essenzialmente dalla necessità di fuggire da una condizione di insostenibile povertà, spesso da guerre intestine devastanti e, per quanto riguarda la clandestinità, è stato programmato da organizzazioni di trafficanti di uomini senza scrupoli che, per denaro, hanno organizzato e organizzano tuttora  “i viaggi della speranza” su barconi fatiscenti per giovani disgraziati disposti a spendere tutti i loro risparmi per inseguire il sogno di una vita degna di essere vissuta. Nella maggior parte dei casi non hanno trovato una concreta accoglienza, un lavoro, ma solo la possibilità di continuare a vivere nella clandestinità. Legalmente la definizione “clandestino” corrisponde a verità perché essi non sono in possesso del permesso di soggiorno, ma d’altra parte è altrettanto vero che sono partiti dai loro paesi di origine perché si aspettavano tutt’altra accoglienza, avendo pagato in media più di 3000 euro per il viaggio ed essendo stati rassicurati che avrebbero trovato cibo, casa e lavoro. Invece sono rimasti solo dei clandestini, delusi e in parte arrabbiati per non aver trovato in Italia ciò che dai trafficanti era stato promesso e non rendendosi ben conto che chi li ha traditi non appartiene al paese che ora è costretto ad ospitarli suo malgrado, ma l’aver dato credito a uomini  disonesti del loro stesso paese d’origine. Hanno dovuto provvedere a sé stessi come hanno potuto,  anche spacciando o prostituendosi, sia uomini che donne. La sera, passando per le zone vicino alle stazioni ferroviarie o nei vicoli di qualche periferia ai margini della città ci rendiamo ben conto che il problema esiste davvero, assumendo a volte la forma di una vera e propria emergenza sociale. Essi stessi, per paura di essere espulsi in quanto clandestini e  diffidenti a causa della mancata integrazione, tendono a isolarsi, evitando contatti con la gente del luogo. E’ un meccanismo circolare che fomenta rabbia e sfiducia da ambo le parti. Nei casi peggiori, se non riescono in alcun modo a trovare una via di uscita delinquono, bevono, si drogano, spacciano in una spirale di crescente violenza.

Sicuramente esistono responsabilità  concrete sia del nostro paese che dell’UE, rintracciabili nell’incapacità di prevedere, prevenire e contenere  l’ingresso indiscriminato di migliaia di migranti destinati ad aumentare in modo esponenziale. Buonismo superficiale da una parte, per cui hanno prevalso sani sentimenti di fratellanza e solidarietà non però supportati da strumenti idonei per l’aiuto concreto di queste persone,  ma dall’altra anche speculazioni di organizzazioni, solo apparentemente no profit, a favore dell’ingresso  e della sistemazione dei migranti senza prendersene veramente cura, trovando loro un lavoro, un alloggio decoroso, la possibilità di studiare la lingua. Sono stati lasciati soli, magari con il foglio di rimpatrio che hanno subito stracciato, senza la possibilità di imparare  la lingua italiana, di trovare un lavoro, se non sottopagato come braccianti, senza una casa se non una baracca spelonca, simile a quella dove abitavano in  Africa. In un clima simile è impensabile che la violenza e la rabbia non imperino.

Mettendoci per un attimo nei loro panni, come reagiremmo noi?

Personalmente, con mio marito e le nostre 3 figlie venti anni fa abbiamo fatto l’esperienza di vivere 5 mesi in Kenia, non da turisti, ma come aspiranti genitori adottivi. La nostra situazione era ovviamente di gran lunga privilegiata rispetto a quella dei clandestini in Italia; noi avevamo il denaro per permetterci di vivere lì senza chiedere niente a nessuno e potevamo partire in ogni momento, eppure un senso di profonda fragilità e impotenza vissuto allora ci accomunava in minima parte a ciò che essi vivono ora. Fu molto difficile costruire un rapporto  personale, io ero vista dagli abitanti del posto come una delle tante “mami” bianche a cui chiedere denaro. Parlando di ciò con un missionario comboniano che da decenni viveva in uno slum di Nairobi, accanto alle discariche a cielo aperto, dove la gente andava a razzolare in cerca di cibo o altro, egli mi confermò quanto fosse arduo entrare in contatto profondo con loro anche per lui che viveva nelle stesse stamberghe, nutrendosi dello stesso cibo, soffrendo il caldo ed esposto alle stesse malattie, con l’odore delle fogne nelle narici,  e la vista permanente dei ratti che saltellavano fra le loro gambe. Eppure lui, così mi raccontava, era avvantaggiato perché sarebbe potuto tornare in Italia quando avesse voluto. Per la gente di lì non sarebbe stato possibile e questo dato di fatto faceva di lui un diverso dagli altri, un “privilegiato” e una vena di diffidenza mista ad atavica soggezione aveva ormai messo le radici  nella relazione,  suscitando distanza emotiva. Era necessario che essi trascorressero ancora tanto tempo insieme per abbattere queste barriere e sentirsi alla pari.

Il colore della pelle gioca un ruolo importante nel “riconoscersi” appartenenti alle stesse origini. Noi eravamo pochi bianchi fra tanti neri e ciò che non gradivano, così qualcuno ci raccontò, era che eravamo lì  non per donare, ma per portare via un loro figlio, anche se ovviamente per vie del tutto legali.

Ancora una volta l’archetipo del bianco che depreda l’Africa.

 Si può in tal senso comprendere come essi sembrassero espulsivi nei  nostri confronti, associandoci inconsciamente a dei predatori, usurpatori,  sfruttatori, comunque al male. Era una sensazione netta che si avvertiva nei tribunali dove i giudici, gli avvocati e anche gli assistenti sociali, dall’alto del loro potere, ostentavano il diritto di stabilire se potevamo diventare genitori di quel bambino che già da 4 mesi viveva con noi e che sentivamo figlio. Ho vissuto nella soggezione costante verso queste persone, nel timore di non essere compresa e in uno stato di debolezza e impotenza che condizionava ogni tentativo di comunicazione.

Nairobi, dove vivevamo, non è fatta solo di slum per indigenti, ma esistono aree molto ricche, abitate dall’alta borghesia, che ha costruito ville bellissime con parchi lussureggianti. L’associazione, che ci ospitava nel periodo preadottivo, aveva la sede proprio lì, vicino alle ville di professionisti, forse degli stessi giudici che avrebbero dovuto decidere se potevamo adottare. Mio marito ed io passeggiavamo per quei viali, rimuginando su che cosa sarebbe potuto accadere, perché era tutto incerto. Eravamo impotenti e a volte la rabbia prendeva il sopravvento nei confronti di questa gente, delle loro piscine e dei loro lussuosi centri di fitness… riflettendo ora, a distanza di molti anni, in quei giorni eravamo emotivamente non lontani dai sentimenti ambivalenti  misti di impotenza e di rabbia dei clandestini di oggi in Italia.

 In una condizione di estrema precarietà nessuno può essere certo delle proprie reazioni emotive.

Nessuno può onestamente dire, in determinate tragiche condizioni: “a me non accadrebbe mai di rubare, delinquere, prostituirmi”.

Tornati in Italia si concluse positivamente il periodo dell’idoneità all’adozione anche se eravamo stati costretti a restare lì 5 mesi invece che i 30 giorni previsti. Fu dura ma ce la facemmo, anche se con qualche ammaccatura. Alcune coppie adottive che erano partite nel turno successivo al nostro non ressero allo stress e alcuni di loro si incatenarono a dei pali di fronte all’ambasciata di Nairobi, come segno di protesta per non poter ancora tornare a casa con il figlio adottivo, visto che le indagini si prolungavano oltre 5 mesi.

 Racconto questo per sottolineare come sia possibile perdere il senso della razionalità se messi sotto pressione psichica. La percezione di totale impotenza, di non contare niente, che avevamo provato anche noi, era una miccia che poteva esplodere in ogni momento.

Tanti sono i “vu cumpra” che girano per le strade delle nostre città o davanti ai supermercati, offrendo alle persone di portare alle auto i carrelli con la spesa. Vivono aspettando il permesso di soggiorno, oppure ce l’hanno già e  racimolano un po’ di soldi per pagare affitti onerosi. In 4 o 5 vivono in monolocali nelle periferie. Sono in genere miti ed educati e volentieri allunghiamo loro un euro di mancia e con questo ci sentiamo generosi e tolleranti, in pace con la nostra coscienza, ma raramente ci viene spontaneo rivolgerci a loro come a persone, alla pari. Magari sono mesi che li incontriamo davanti ad un grande magazzino, sempre gli stessi, ma non sappiamo neppure come si chiamano o forse glielo abbiamo anche chiesto, ma è un nome straniero difficile da ricordare, è indifferente sapere se sono sposati o hanno figli, o qual è il loro paese d’origine, se in quel paese è in corso una guerra intestina o se c’è carestia.  Che cosa li ha spinti a partire e a lasciare la loro patria? Quali sofferenze e spese hanno affrontato per arrivare qua?

Impossibile farsi carico di un problema così complesso.

D’altra parte dobbiamo riconoscere che, al di là dell’approccio superficiale e stereotipato del “nero” verso il bianco “Mami, mami, aiutami”, anche essi nutrono una diffidenza   atavica nei nostri confronti, indifferenza a entrare in relazione profonda con un bianco perché tale rapporto, come accennato sopra, è inquinato da secoli di violenze da noi perpetuate verso gli africani; si è instaurata una circolarità negativa e disfunzionale in cui prevalgono solo pregiudizi che minano ogni forma di sana comunicazione.

In questo humus desolante che cosa immaginate potrebbe accadere se fra un “Vu cumprà” africano e la vostra giovane e bella figlia nascesse un amore profondo? Il film “Indovina chi viene a cena”,  del lontano 1967, è poi così lontano dalle nostre considerazioni ed emozioni più profonde? Riuscite ad immaginare la complessità degli stati d’animo dei vari soggetti coinvolti?

 E’ ciò che ho descritto nel mio romanzo:

“L’amore nei giorni del coraggio”.

Il protagonista del libro lo esprime chiaramente:

“Il problema è l’uomo, bisognerebbe poter cambiare il suo cuore…L’uomo tende al bene, ma non è capace di compierlo se non sporadicamente…Si tratta di uscire dal proprio Io per abbracciare un orizzonte più lontano che rivela il senso della nostra vita, il perché viviamo e dove stiamo andando.” pag. 102-103

 Il cambiamento può avvenire a partire dal cuore. Cuore, non inteso nell’accezione romantica e sdolcinata, ma come faro del senso e della progettualità di vita.

Ripartire dallo sguardo sull’uomo e dall’essenza della nostra vita.

Da dove veniamo, dove andiamo, a quale fine.

Sentendo discutere coloro che hanno le capacità e il potere di definire quale sia il bene dell’umanità da perseguire, sembra quasi che costoro abbiano del tutto perso il filo conduttore del significato dell’essere al mondo. Tutti, in teoria, hanno la coscienza di ciò che sarebbe bene per l’uomo: pace, fratellanza, amore reciproco. Obiettivi ardui da raggiungere considerando la natura intrinseca dell’uomo, costituita di eros e thanatos insieme. Davanti a questa consapevolezza amara ci si ferma, non cercando ulteriori possibilità in questa direzione di bene comune, considerandola naive, ci si orienta verso un innalzamento delle barriere contro “il nemico”, si ricorre alla corsa ad armamenti sempre più sofisticati e micidiali, che possano incutere timore.

“L’Europa deve mostrare i denti nei confronti delle altre potenze” ho sentito alla TV da un esimio opinionista. Forse sarebbe invece necessario  che si collocasse al primo posto il bene dell’umanità intera piuttosto che il prevalere degli uni sugli altri, detenendo lo scettro di una giustizia che considera la questione solo dal proprio punto di vista.

 Ciò significherebbe però uscire dalla logica buono-cattivo cercando un punto di incontro comune e ciò è molto faticoso perché rema contro il principio su cui si reggono la nostra società e la nostra cultura:  individualismo esasperato, egocentrismo intellettuale ed emotivo .

Ma c’è qualcosa di più prezioso da proteggere: la vita di ognuno.

Ritornando alla questione dei migranti non è lontano il periodo in cui anche noi eravamo migranti. In Svizzera mi raccontava mio nonno, nato nel 1917, appendevano cartelli davanti ai ristoranti di lusso, dove si leggeva: “vietato l’ingresso agli italiani e ai cani”. Non eravamo ben accolti perché rozzi, maleodoranti e indigenti tali da renderci oggettivamente brutti.

 Ma la nostra civiltà è fondata su flussi di popoli, orde barbariche, invasioni di massa che hanno  creato sconvolgimento sociale, ma hanno anche arricchito il nostro patrimonio etnico. La nostra lingua è frutto di un intreccio di lingue e culture  diverse. Tutto ciò accade attualmente, ma chi arriva non lo fa con la forza, grazie a eserciti armati, ma viene “senza tunica o bisaccia”, costretto solo dal bisogno di sopravvivere.

Urge uno sguardo benevolo, di rispetto verso l’altro essere umano che ha bisogno di aiuto. Solo dopo una “kenosi” di questo tipo, un bagno di umiltà che ci faccia scendere dal piedistallo, sarà possibile affrontare il problema.

Niente è da considerarsi veramente nostro, ma tutto è dono.

Partendo da ciò do sarà possibile avvicinarci al problema. Viceversa ci fermeremmo al problema e cercheremmo soluzioni che non danno valore all’uomo. “I neri” non devono essere omologati solo al problema clandestini. Negare che il problema esiste è ipocrisia, ma è il modo di affrontarlo o di non affrontarlo  che non va bene.

I partiti che sottovalutano il “problema clandestini”, negando l’emergenza sociale e di sicurezza in cui versa il paese, non fanno che inasprire la situazione e la convivenza stessa fra i migranti e la gente del luogo.  Ugualmente  è negativo puntare il dito su tutte le persone di colore, facendo di tutta l’erba un fascio e strumentalizzando la questione.

Si assiste  tristemente ai vari talk show televisivi in cui si parla di clandestini o comunque  della presenza di extracomunitari in Italia in cui accade che, già in partenza, prima che il politico, il giornalista o l’opinionista di turno aprano bocca, si sa già ciò che diranno: all’inizio del confronto sono schierati rigidamente da una parte o dall’altra e ciò impedisce una visione ampia e profonda della questione. Mai che essi escano da una logica proiettiva che vede il male, il negativo solo da una parte abbracciando invece una visione più complessa  in cui l’essenziale non è demonizzare l’avversario, come invece puntualmente accade, ma trovare un punto di incontro che faccia emergere il buon senso, l’intelligenza, il bene comune.

E’ tanto banale quanto oggettivo e doveroso osservare che tutto il denaro speso per la realizzazione di armamenti e attrezzature belliche sarebbe sufficiente a sfamare tutto il mondo, affinché nessuno muoia più di fame, malnutrizione, o per mancanza di medicinali. Eppure tutt’oggi sembra che l’unica soluzione per vincere le guerre e i conflitti mondiali e ottenere la pace, sia diventare militarmente più potenti degli altri, affinché il nemico desista dai suoi propositi espansionistici.

Credo che sia un ossimoro.

Auspico un approccio globale al problema, volto al bene comune e non a interessi di parte e in cui al primo posto finalmente prevalga il riconoscimento dell’altro come un possibile “io” in condizioni diverse.

Sarebbe utile sedersi ad una “tavola rotonda” in cui ad ognuno venisse riconosciuto lo stesso valore: il diritto di essere ascoltato a prescindere dalla forza che lo sostiene, per il bene comune, considerando tutti i limiti e le potenzialità del problema trattato e soprattutto mettendo al centro il valore della vita umana.