Quale metacomunicazione da un punto di vista psicologico
“La strada la si scopre soltanto camminando. Guai a rimanere bloccati di fronte ad un intrico di piste e non decidersi mai a tentarne una. Certo si corrono dei rischi. Ma il rischio maggiore è quello di non correre rischi”. André Lowen, Paura di vivere.
Da molti anni il matrimonio non rappresenta più per molte persone un'istituzione stabile nel tempo, che accompagna i due per tutta la vita e il numero sempre più crescente di separazioni e divorzi lo testimonia.
Il vincolo matrimoniale è vissuto con diffidenza da parte di coloro che sostengono che sposarsi sia solo un atto formale e nello stesso tempo troppo dispendioso nel caso in cui si decida dopo qualche anno di separarsi. Questa istituzione per molti non è più depositaria di valori assoluti per la loro realizzazione umana, come il rimanere uniti nel bene e nel male, l'indissolubilità, la completa gratuità della relazione intesa come dono totale di sé all'altro. La formula “finché morte non ci separi” è sostituita con “finché dura”, con o senza figli e abbracciando questa filosofia di pensiero si comprende bene che non convenga impegnarsi per tutta la vita, sembra più logico stare insieme senza vincoli esterni. La relazione da molto tempo ha assunto un carattere totalmente privato, troppo spesso preda di emozioni mutevoli. Irene Thiery ha sottolineato la sempre più continua tendenza al “demarriage”, cioè fare coppia al di fuori del matrimonio. L'esperienza familiare è fortemente privatizzata, autoreferenziale.
Analizzando il vincolo del matrimonio non distinguo volutamente fra il contratto civile, davanti al sindaco e quello religioso, davanti al sacerdote, perché, anche se fra i due le differenze sono sostanziali e significative da un punto di vista antropologico e sociale, la mia riflessione tende ad evidenziare soltanto una differenza di carattere psicologico. Come metacomunicazione quale messaggio si infiltra sotterraneo fra i due innamorati nel caso decidano di convivere piuttosto che sposarsi?
Cosa significa a livello psicologico la scelta della convivenza di coppia piuttosto che del matrimonio nel caso in cui non sussistano, nei confronti del vincolo, motivazioni espressamente etico-religiose o ideologiche? Cosa significa, come metacomunicazione, l'affermazione “stiamo bene così, non abbiamo bisogno di carte bollate, l'amore non equivale a un timbro e a qualche firma dei testimoni”? Alla base di questo “mantra” esiste spesso una grande paura e una diffidenza verso il legame. Spesso accade di iniziare un percorso di psicoterapia perché lei (più raramente lui) accusa sintomi di ansia (generalizzata, acuta, attacchi di panico), depressione, o nella sfera sessuale. Frequentemente grazie ad un'analisi profonda del loro disagio i pazienti diventano consapevoli che alla base della loro sofferenza esiste un'impostazione della vita insita nella decisione stessa di convivere che non si adatta, o non si adatta più, alle loro esigenze interiori. “Agiscono” pragmaticamente scelte che non corrispondono alla profonda ma spesso inconsapevole ricerca di un amore che desidererebbero esistesse per sempre. Ciò che inibisce la possibilità di intravedere un orizzonte più ampio è il timore inconfessato di scommetterci fino in fondo e di rimanere delusi, di rischiare. Il coraggio di “buttare il cuore oltre l'ostacolo”. Chi convive, non sempre, ma spesso, del tutto in modo inconscio, è dominato dal bisogno di non rischiare, di poter uscire da quella storia senza troppe ferite, e soprattutto senza spendere denaro per gli avvocati. A volte non sono contrari al matrimonio, ma comunque preferiscono rimandare a un futuro indeterminato tale progetto, per avere la sensazione di avere a portata di mano una via d'uscita, a volte per calcoli economici, non potendo far fronte alle spese di una cerimonia troppo costosa!
La mancanza di elaborazione di tale scelta porta i due a un impoverimento del dialogo, si crea all'interno della coppia una distanza emotiva. Convivere rappresenta quindi, in alcuni casi, un bisogno di protezione di se stessi di fronte alla relazione e a ciò che potrebbe accadere, mentre l'amore, per il suo dinamismo non è mai statico, ma tende a crescere o ad esaurirsi in base al nutrimento che si apporta alla relazione. L'amore implica quindi un movimento, un “uscire da sé”, superando le barriere del proprio narcisismo autoreferenziale e andare incontro alla relazione proprio come viene descritto nel testo esegetico ebraico della Bibbia, il Talmud, in cui si legge che le acque del Mar Rosso si aprirono al popolo in fuga dagli egiziani dopo che il primo uomo si era affidato e buttato in quelle acque; solo dopo quell'atto di coraggio e affidamento era stato possibile constatare che le acque non li avevano travolti. Non prima. Quel primo uomo aveva rischiato. Ciò è simile a quanto avviene nell'amore. Nonostante ciò è indiscutibile che anche i matrimoni falliscono, anche se il numero delle rotture delle convivenze rimane superiore, ma ciò dipende dal nutrimento apportato alla relazione durante gli anni.
E' necessario sottolineare che, da un punto di vista psicologico, nel matrimonio, rispetto alla convivenza, è presente un valore aggiunto: la disponibilità ad affidarsi totalmente alla bontà della relazione.
Questo il senso e il valore di quel “sì”.
Una possibile obiezione alla mia riflessione potrebbe sollevarsi partendo dal presupposto che le due scelte possono equivalersi e che, alla fine, non è determinante per l'equilibrio psichico ed emotivo di un individuo la sfera affettiva, nel senso dell'amore con la A maiuscola, ma piuttosto la professione, una solida situazione economica, gli amici, i passatempi; la coppia, la famiglia, possono essere considerati un contorno, non una priorità. Da un punto di vista antropologico cristiano (come tutto il filone della psicologia personalistica) si afferma che la ricerca e la crescita dell'amore sono prioritari per l'equilibrio psichico ed emotivo della persona. L'uomo si realizza e “si rivela a se stesso” attraverso e grazie all'amore. L'amore non è solo un sentimento dominato dall'emotività, dall'istinto, ma deve tendere a diventare volontà di crescita, espressione, realizzazione di sé e dell'altro attraverso il dono di se stesso, perché attraverso esso l'uomo compie e realizza la sua umanità. Come dono non può essere inteso come “do ut des”, ma pura gratuità, tensione verso la trascendenza.
Se l'amore seguisse la logica del “ti amo perché mi fai star bene” sarebbe legato ad una sensazione fluttuante, passeggera passibile di spostamenti da un oggetto ad un altro! L'altro non potrà comunque rendermi felice, al contrario il mio anelito al dono di me stesso nella relazione permetterà che io sperimenti l'amore, come tensione all'altro senza mai raggiungerlo o trattenerlo. Un centro che si crea che non sono io e non è l'altro, ma la relazione. Essa rappresenta quindi un fulcro intorno a cui vivere e per alimentarsi la relazione ha bisogno sia di segni che di fatti concreti che testimonino questa scelta di vita. E' una scelta di vita che essenzialmente porta ad una rivelazione e conoscenza di sé profonda. E' infatti grazie alla relazione intima con l'altro che la persona esce dalla dimensione di individuo ed esplora se stessa nella sua nudità, in un rapporto autentico che svela le paure, le angosce e i limiti del proprio essere. Senza l'altro che amiamo questa trasformazione è impossibile; accade che indossiamo maschere, forse soffrendo meno, ma rimanendo distanti da noi stessi.
Termino questa breve riflessione con un'osservazione tratta da Antoine de Saint Exupèry, nel Piccolo Principe, che sintetizza egregiamente il mio pensiero:
“L'amore è forse quel delicato processo attraverso il quale ti accompagno all'incontro con te stesso".