A proposito della fame nervosa

“Non muovere mai l'anima senza il corpo, né il corpo senza l'anima, affinché difendendosi l'uno con l'altra, queste due parti mantengano il loro equilibrio e la loro salute.” Platone

 Durante questo complesso e difficile periodo storico sociale in cui, a causa anche del coronavirus, ci sentiamo tutti in gran parte limitati nelle fondamentali espressioni di movimento e di relazione, siamo facilmente e subdolamente tentati di cercare una via di “innocente trasgressione” a buon mercato, senza per questo infrangere i comprensibili e ragionevoli diktat degli innumerevoli emendamenti promulgati dal Ministero della Sanità, ma comunque non rinunciando a gratificare, almeno apparentemente, il bisogno primario di “nutrimento” insito in ogni essere vivente e che questa attuale condizione di oggettiva deprivazione in qualche modo nega ad ognuno di noi. Davanti a questa necessità di “pienezza emotiva” niente di più semplice e a portata di mano quindi che assumere cibo per soddisfare la pulsione primitiva orale che “brama” sazietà, ben oltre il necessario fabbisogno quotidiano. In questo caso il soggetto crede di aver fame, ma in effetti la sua è una fame nervosa che ha prevalentemente il compito di colmare, riempire, nascondere un vuoto che in verità non abita nello stomaco, ma nella sua mente.
 
Da un punto di vista strettamente fisiologico quali sono gli organi deputati al riconoscimento, al controllo del senso di sazietà?
 Può essere di aiuto chiedersi in che misura il cervello e l'intestino siano collegati e capaci di condizionarsi a vicenda visto che si considera l'intestino un secondo cervello.


Stomaco, pancreas, tessuto adiposo inviano continuamente informazioni al cervello, alla parte inferiore dell'ipotalamo e al nucleo arcuato, attraverso specifici ormoni deputati al controllo del comportamento alimentare:
- la grelina, secreta dallo stomaco,
- l'insulina, secreta dal pancreas,
- la leptina, secreta dalla massa adiposa.

 
Cervello e intestino sono quindi strettamente collegati attraverso il nervo vago, il decimo delle dodici coppie di nervi cranici, il più lungo, da cui deriva il nome latino “vagus”, che significa vagabondo. Esso nasce nella scatola cranica, si dirama attraverso vari organi fino a raggiungere l'addome; assolve molte funzioni, presiede al controllo dei movimenti muscolari, invia informazioni al cervello sullo stato degli organi; esattamente attraverso il nervo vago passa anche il senso di sazietà che comunque dipende da un apprendimento all'inizio quasi esclusivamente biologico e che gradualmente si sviluppa e si consolida nel tempo, a partire dalla prima infanzia. Innumerevoli studi, a partire da quelli di Anna Freud, M. Klein , R. Spitz, hanno indirettamente gettato le fondamenta per appurare successivamente, grazie a approfondimenti di altri autori, che molti soggetti in sovrappeso o addirittura obesi, hanno sviluppato una dipendenza patologica dal cibo a partire dal cattivo rapporto con il cibo in tenera età, addirittura, in alcuni casi, a causa dell'inadeguato contatto con il seno materno o con il biberon nel primo anno di vita del bambino. Per esempio se la madre ha risposto al pianto del figlio offrendo subito e solo il latte, senza prima accertarsi delle cause del pianto del piccolo ( egli può avere sonno, può avvertire un disagio a causa del pannolino troppo bagnato, oppure ha bisogno di cambiare posizione fisica, o è inquieto perché sottoposto a un' eccessiva stimolazione di immagini o suoni...) quest'ultimo svilupperà un condizionamento secondo il modello stimolo/risposta per cui a ogni disagio, inquietudine, ansia imparerà egli stesso a rispondere, nello stesso modo inadeguato, con l'assunzione di cibo. Il bambino in tale circostanze si abituerà costantemente in età scolare ad associare un suo qualsiasi stato di bisogno al cibo, senza ovviamene avere la capacità di elaborarne le cause;
Stimolo: disagio, sofferenza...........Risposta: cibo.

L'apprendimento in grado di rispondere ai nostri bisogni dipende ed è condizionato quindi non solo da una richiesta fisiologica, ma anche e spesso dai nostri bisogni emotivi.
Il cervello regola il comportamento alimentare secondo una sequenza definita prandiale:
- stimolo della fame,
- senso di sazietà,
- fase priva di stimoli.

 
In questa terza fase, il soggetto dovrebbe sentirsi soddisfatto e “sufficientemente nutrito”. Se invece continua a desiderare di assumere cibo, ciò può dipendere da altri fattori: carenze affettive, bisogno di consolarsi da eventi frustranti, noia, incapacità di controllo dell'ansia, solitudine.
A questo punto e assumendo questa consapevolezza si può intervenire su più fronti, cercando di spezzare il cerchio di consuetudini che portano il soggetto in modo quasi coatto, automatico ad ingerire cibo. Se ciò avviene sistematicamente per un periodo di tempo significativo (non una sola settimana, ma mesi e anni) il soggetto diventa in sovrappeso (indice di Massa Corporea fra 25 e 30) o addirittura obeso, (indice di Massa Corporea superiore a 30.)
Come interrompere questo circolo vizioso che produce, oltre a uno squilibrio energetico, anche un disagio emotivo?


Una sinergia di interventi ben calibrati promuove un significativo miglioramento dell'equilibrio psicofisico e della salute psicofisica in generale:
- totale e lucida consapevolezza dei meccanismi psichici che hanno indotto nel tempo il soggetto ad assumere eccessivamente cibo (colloqui psicologici con uno psicoterapeuta esperto specificamente di disturbi dell'alimentazione);
-  percorso mirato con uno specialista con esperienza in educazione alimentare (dietologo, dietista o nutrizionista);
-  programma mirato di educazione fisica che deve essere costante e formulato in base alle esigenze, tendenze, età, stato di salute del soggetto (personal trainer, palestra). Il movimento fisico è essenziale per raggiungere un significativo e persistente equilibrio psicofisico. Come infatti uno dei massimi esperti in problemi di obesità afferma (Dalle Grave R.) il problema principale consiste nel mantenere il peso dopo il dimagrimento e non tanto dimagrire. Mantenere il peso ottenuto richiede molta attenzione e cura del percorso svolto. Utopico e rischioso per la salute è pensare di perdere molti chili in breve tempo; si riprenderanno tutti velocemente in pochissimo tempo, e con onerosi interessi. Dalle Grave giustamente ritiene che un calo di peso ipotizzabile e mantenibile nel tempo si aggiri intorno al 10% del peso di partenza. Solo dopo aver ben consolidato questo risultato si potrà eventualmente procedere verso ulteriori percorsi di dimagrimento. Questo avviene essenzialmente perché si dimagrisce “con la testa”, cioè cambiando, a volte radicalmente, lo stile di vita, e spesso non solo quello, ma implica in alcuni casi una rivisitazione globale dei propri riferimenti esistenziali. Non spingendoci ulteriormente in considerazioni che ci porterebbero lontano dal tema trattato si può solo aggiungere che gli ormoni attivati nel movimento aerobico (come serotonina, e dopamina che entrano attivamente in circolo con una semplice passeggiata di 40 minuti), fungono eccellentemente da “antidepressivi”, agendo quindi favorevolmente sull'umore generale del soggetto. Questo permette di controllare la fame nervosa che invece tenderebbe a essere l'unica risposta ad ogni forma di disagio.

Si dimagrisce e si ingrassa quindi a partire dal nostro cervello e dal nostro cuore e solo abbinando una serie di interventi, seri, pazienti, costanti e ben calibrati si può sconfiggere questa patologia fonte di depressione, bassa autostima, in alcuni casi vero disprezzo per il proprio corpo che invece funge da capro espiatorio di tutte le emozioni che lo attraversano.