L’organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiara che a causa dell’alcol muoiono nel mondo, ogni anno, circa due milioni e mezzo di persone. La prima causa di morte fra i giovani è causata dall’alcol. L’etanolo è una sostanza di abuso diffusissima poiché è presente nel vino, nella birra, nei superalcolici.
L’alcolismo è una dipendenza fisica e psichica che causa danni molto più pericolosi di quelli causati da coloro che si mettono alla guida spericolata di un’auto causando incidenti mortali. E’ un fenomeno parzialmente ancora nascosto perché il consumo di alcol è considerato dappertutto legale e inoltre il suo uso è ritenuto socialmente giustificato e in parte promosso e favorito dalla pubblicità, che incentiva incessantemente l’abitudine a gustare insieme l’aperitivo; piace l’idea dell’apericena stessa: tutti allegri, insieme, con il calice sollevato!
In teoria in tutto ciò non c’è niente di male né tanto meno di patologico. E’ invece la quantità di alcol assunta che non è accettabile, perché in genere il soggetto in questione non si ferma a un solo bicchiere, ma tende a finire la bottiglia e soprattutto è preoccupante l’idea che assumendo alcol si diventi più allegri, meno apatici…si spera che favorisca il buon umore e l’ottimismo. Questo atteggiamento mentale nei confronti dell’alcol è ormai assunto da molto tempo dai giovanissimi, anche se la vendita ai minori è vietata. I controlli scarseggiano ed è facile comprare alcol e comunque è abitudine condivisa il venerdì sera chiedere a un amico maggiorenne di comprare bottiglie di superalcolici che poi i ragazzi minorenni bevono insieme durante il fine settimana, ritrovandosi in un appartamento o nel garage di uno di loro, ad una festa, ai giardini, anche da soli.
L’abuso di alcol rappresenta da un punto di vista clinico una patologia grave, purtroppo difficilmente aggredibile con la psicoterapia. La persona dipendente da alcol rifiuta in genere di andare da uno psicoterapeuta per intraprendere un percorso di analisi sulle sue problematiche perché fondamentalmente pensa di non averne bisogno e si illude che il suo problema non sia grave. Quindi, alla base, persiste un’inconsapevolezza della gravità del problema e un atteggiamento sostanzialmente proiettivo che non si presta a una analisi su se stesso. Il soggetto dipendente è disposto ad ammettere che quello che sta vivendo è un periodo complesso della sua vita, ma perché è sfortunato, perché nessuno lo aiuta a risolvere i suoi problemi, che comunque sono altri e non certo la dipendenza da alcol, anzi, proprio per questo, il giovane “si tira su” con un bicchierino. Manca completamente la dimensione introspettiva che gli permetterebbe di risalire alle cause che lo portano a bere in modo eccessivo.
“L’alcol non c’entra, io lo controllo, è che sono vittima di un sistema sociale ingiusto!”
“La vita non mi piace, è una schifezza, le persone sono tutte disoneste e per dimenticare bevo un po’ di vino che non ha mai fatto male a nessuno!”
“Lavoro, al fine settimana mi merito lo sballo! Altrimenti che vita è!”
La consapevolezza è quindi il primo passo essenziale per rendersi conto del rischio che si sta correndo. Il primo gesto di presa in carico di se stessi per poter successivamente uscire dal tunnel della dipendenza.
Quali sono i più importanti segnali da cui capire che si sta entrando o si è già appena entrati in dipendenza?
- Bere nella prima parte della mattina;
- Bere di nascosto, nascondere le bottiglie, negare di farlo;
- Bere da soli;
- Asserire di non essere dipendenti dall’alcol.
Spesso è presente una comorbilità, l’associazione di più patologie diverse che coesistono contemporaneamente, come l’assunzione di alcol e di droghe simultaneamente. Tali condizioni richiedono interventi specialistici, non raramente in terapia intensiva residenziale e sempre in contatto con una equipe di professionisti che si prendano in carico il soggetto.
Il trattamento è sempre e comunque multidisciplinare e lavora su diversi piani:
- Il corpo che funge da capro espiatorio di questa dipendenza. E’ trattato come oggetto, mero contenitore da riempire di alcol, e che deve dispensare sensazioni piacevoli o saporifere in base alle esigenze emotive della persona al momento e alle sostanze alcoliche assunte. Accade infatti frequentemente che si cominci a bere per un certo motivo (tristezza, delusione, solitudine) e, bicchiere dopo bicchiere, non si riesca a fermarsi e a quel punto si continui a bere per un altro bisogno (dipendenza da alcol). E’ necessario lavorare sul cervello e sul sistema nervoso, intervenendo spesso con psicofarmaci adeguati, sia antidepressivi che ansiolitici;
- La motivazione. In questo caso la frequentazione di gruppi di auto-mutuo-aiuto è la soluzione più efficace e veloce per recuperare la consapevolezza di sé e la necessaria autostima (comunque la durata, assidua e determinata, non deve essere inferiore, minimo, a uno e mezzo – due anni). I gruppi sono organizzati da soggetti che sono usciti dalla dipendenza e che comunque continuano a stare nei gruppi insieme ad altri soggetti ancora totalmente dipendenti. L’assenza di uno specialista all’interno del gruppo permette ai soggetti di esprimersi liberamente, di sentirsi accolti, riconosciuti e non giudicati nei loro bisogni e soprattutto nelle loro ricadute che in genere avvengono, all’inizio con una certa frequenza, successivamente più raramente, fino a scomparire portandoi soggetti in questione a desiderare di diventare astemi;
- La situazione familiare, sociale, professionale. E’ importante verificare se all’interno della famiglia sia possibile ricevere un sostegno e una collaborazione volta al recupero della persona dipendente. In alcuni gruppi di auto-aiuto è aperta la partecipazione a un parente della persona dipendente che viene definito “co-dipendente oppure co-alcolista”. Fra i due si intreccia una dinamica di stretta solidarietà ed empatia per cui, per esempio, se il compito consiste nel non bere e invece il soggetto beve un bicchiere, ecco che il co-dipendente ne dovrà bere due di bicchieri! Alla fine non è raro che quest’ultimo si ubriachi se non è abituato a bere. In tal caso sarà il paziente stesso a soccorrerlo nel modo adeguato. Da ciò si evince il principio terapeutico stesso (curarsi curando).
Il percorso da proporre al soggetto varia da persona a persona in base alle sue risorse umane e intellettive, al supporto familiare, alla cordata di alleanza e solidarietà che si riesce a creare intorno a lui, nell’ottica di favorire un significativo cambiamento del suo stile di vita e soprattutto dei valori fondanti la sua esistenza.
Vorrei fare un esempio banale, simbolico ma calzante, perché racchiude il progetto di un’esistenza nuova:
dall’amore per la bottiglia all’amore per una passeggiata nel bosco.
Non è facile perseguire questo obiettivo e solo una sinergia di fattori potrà contribuire a sollevare il soggetto dall’abisso in cui è caduto.
Sicuramente il corpo in movimento aerobico, prolungato e armonico attiva gli ormoni che il fisico stesso mette in circolo, come serotonina e dopamina, che fungono da eccellenti antidepressivi, agendo in senso positivo sull’umore del soggetto e favorendo un atteggiamento di maggiore apertura verso il mondo esterno e per il recupero della persona nella sua totalità, mente e corpo.
E’ basilare che la persona faccia esperienza del suo essere come organismo unitario e che possa esplorare tutte le parti di sé che formano la sua consapevolezza. Lavorare sulla corporeità fornisce l’accesso privilegiato alla sfera emotiva, intellettiva e affettiva della persona stessa.