La formazione analitica di H. S. Sullivan fu condizionata dalla storia stessa della psicologia americana, a partire da W. James, fino al filone della psicologia sociale; C.H. Cooley, G. H. Mead e la scuola psichiatrica di A. Meyer, padre della psicobiologia americana.
Sullivan collaborò a lungo con R. Benedict e con K. Horney, avvicinando la psicoanalisi alle scienze sociali, sottolineando l’importanza sia di possibili disturbi causati da relazioni interpersonali precarie, che dal conseguente possibile disadattamento dell’individuo.
L’aspetto apparso a quei tempi come innovatore della sua opera consisteva essenzialmente nell’aver valorizzato l’analisi delle relazioni interpersonali rispetto allo studio degli avvenimenti intrapsichici messi in primo piano dagli studiosi freudiani e kleiniani.
Sullivan affermvaa che la schizofrenia, al pari di qualsiasi disturbo psichico, è in gran parte causata da insoddisfacenti relazioni interpersonali. In linea con il filone di pensiero della scuola di psicologia sociale americana, egli sosteneva che l’Io si sviluppa dall’insieme delle valutazioni riflesse degli altri individui; la psiche umana è caratterizzata dalla rappresentazione delle esperienze vissute, e ogni forma di ansia è connessa a vissuti interpersonali. Sotto tale aspetto, il ruolo della sicurezza di un individuo ha per Sullivan lo stesso valore che per Freud aveva il ruolo della libido.
La personalità del bambino si sviluppa in base alla fiducia e alla stima che i genitori (“gli adulti significativi”) gli comunicano di nutrire.
Le relazioni interpersonali sono alla base di eventuali sviluppi psicotici. Per esempio, per quanto riguarda la psicodinamica della paranoia, secondo Sullivan essa nasce da un profondo senso di insicurezza del soggetto, da una precaria identità che riesce a falsare i rapporti ostacolando una comunicazione autentica. Per lo psichiatra americano l’equazione freudiana paranoia uguale difesa dal desiderio omosessuale non rappresenta più il parametro principale: egli sposta la problematica da un punto di vista esclusivamente pulsionale a una dimensione molto più vasta, cioè ambientale e relazionale. Inoltre Sullivan, a differenza di Freud e della sua scuola, non fa una netta distinzione fra paranoia e schizofrenia da un punto di vista nosografico; ogni personalità paranoica è stata, a suo avviso, soggetta a schizofrenia nel suo passato. Egli infatti osserva che:
“Sta di fatto che chiunque si perda nelle paludi della schizofrenia ha delle idee paranoidi,,,tutti i paranoidi da me conosciuti avevano nella loro storia un periodo caratterizzato da contenuti schizofrenici” (H. S. Sullivan, Studi Clinici).
Per Sullivan lo stato psicotico non è solo frutto di una specifica patologia, contrapposta ad uno stato di salute mentale ad essa estranea; ogni individuo, nei primi anni di vita ha sperimentato “stati psicotici”; essi tendono a ripresentarsi, in futuro, solo come momenti transitori carichi di ansia. Lo psichiatra afferma, sempre nel suo saggio, Studi clinici:
…il sistema dell’Io nello schizofrenico non è scomparso. La sua efficienza funzionale è in rapporto con la situazione del momento: perciò quando la pressione non è molto grande, lo schizofrenico è in uno stato mentale molto simile al nostro”.
Il soggetto psicotico è incapace però di elaborare il meccanismo della sublimazione che porta alla socializzazione, all’adattamento e quindi all’equilibrio psichico stesso.
La terapia del rapporto interpersonale di H. S. Sullivan
Per lo psichiatra americano il terapeuta deve sempre rivolgersi, e fare riferimento, alla parte “sana” della personalità del soggetto, prescindendo dall’entità del suo delirio. La disgregazione dell’Io dello schizofrenico è per Sullivan solo parziale
e la sua condizione di disagio psichico è in gran parte dovuta a una estrema povertà di occasioni favorevoli che gli si sono presentate… “per fabbricarsi un sistema dell’Io che avesse probabilità di successo…e nei primissimi tempi della sua vita gli fu inculcata l’idea che fosse un peso per tutti” (Studi Clinici).
E’ importante per Sullivan comunicare al paziente che ciò che ha profondamente leso il suo equilibrio è dovuto alle circostanze e al periodo di vita in cui tali eventi, situazioni, fatti, relazioni sono accaduti e non attribuibili solo o in gran parte a una sua patologia. In tal modo si cerca di ridimensionare l’angoscia del paziente, tenendo bene a freno l’impulso a cambiarlo e riportarlo a una normalità, ma cercando di accogliere il suo vissuto emotivo’, creando un sostegno all’Io del paziente, un’alleanza che non ha mai forse sperimentato nei rapporti precedenti.
Gradualmente sarà necessario introdurre all’interno della relazione terapeutica il concetto di dubbio. Il soggetto schizofrenico rappresenta una sua realtà; è opportuno ipotizzarne anche altre, altri aspetti e sfumature di tale realtà di cui, a lui, è stato concesso di conoscerne solo la parte più terribile.
Per quanto riguarda il trattamento dei processi paranoidei, Sullivan osserva che è essenziale “attaccare” direttamente le idee grandiose e onnipotenti che spesso accompagnano e definiscono tale condizione; egli tenta di riportare il soggetto, attraverso la distruzione delle sue false sicurezze onnipotenti, ad una tensione antecedente, più tipica della condizione schizofrenica, carica di angoscia e ansia; compito del terapeuta consisterà nell’elaborare insieme al paziente la sua ansia, non dovendola quest’ultimo sopportare tutto da solo.
Sullivan, nel suo saggio già citato, osserva:
“L’attacco ha lo scopo di provocare ansia togliendo all’Io quel po’ di compiacenza e tranquillità che mediante quelle idee aveva conquistato…Ciò provoca uno sconvolgimento terribile, che a sua volta scatena l’uno o l’altro di due tipi di eventi…
1) Diffusione delle incertezze schizofreniche, ampliamento del significato delle cose, che rende impossibile al paziente il mantenimento di una idea precisa come un delirio paranoideo, sia pure mutevole; oppure
2) Un aumento di quantità del tempo dedicato ad idee fortemente paranoidee, uno sviluppo e una estensione delle medesime, e una rapida fissazione di esse sullo psichiatra…Se si verifica la prima…ho delle speranze…se invece c’è una intensificazione più una loro forte fissazione su di me, non ci sono speranze”.
L’ “attacco” a cui si riferisce l’autore è certamente interessante e coraggioso considerando il rischio, non trascurabile e tanto meno recondito, che la prima ipotesi possa dar luogo all’insorgere di idee suicidarie. L’ansia implosiva e travolgente generata dalla destrutturazione del sintomo paranoideo può non essere facilmente contenuta e arginata dal paziente e prendere il sopravvento sui suoi pensieri e sugli agiti dello stesso.
Sullivan considera la “condizione psicotica” più un profondo disadattamento sociale piuttosto che un disturbo dovuto a dinamiche intrapsichiche. Il suo contributo riflette, in gran parte, il pensiero americano del tempo; Sullivan, come Frieda Fromm Reichmann, partiva dal presupposto che il terapeuta, debba fare appello alla parte “sana” del soggetto; ciò in parte implica una discriminazione, piuttosto netta, fra ciò che è sano e normale e ciò che è malato e quindi patologico, cioè da escludere, da estirpare; l’analista detiene in tal modo il ruolo di rappresentante della realtà, sana e da tale posizione e con tale funzione cerca di riportare alla realtà anche il soggetto. Ciò presuppone, indirettamente, che la sua opera miri soprattutto al reinserimento sociale della personalità psicotica trascurando in parte l’analisi e la comprensione dello stato psicotico in quanto stato sofferente d’esistenza emarginata.