A causa delle reticenze dell’ambiente psichiatrico francese la psicoanalisi cominciò ad affermarsi in questo paese solo dopo la seconda guerra mondiale. S. Nacht, in particolare, si interessò alla psicodinamica delle psicosi.
La scuola di Nacht riprende e porta avanti alcuni aspetti della tematica kleiniana sulla predisposizione del bambino a vivere una concezione fantasmatica del rapporto oggettuale con la madre; inoltre riprende anche il concetto di “angoscia predisposta ad emergere” in un momento critico del rapporto del bambino con l’ambiente madre. Anche la scuola lacaniana ha punti in comune con la teoria kleiniana; la prima infatti approfondisce la concezione della Klein sugli oggetti buoni e cattivi esaminati in relazione al linguaggio. Inoltre i lacaniani completano la teoria kleiniana introducendo un nuovo concetto: quello riguardante la “forclusione del nome del padre”. Il bambino, preso dal suo desiderio per il primo oggetto d’amore, la madre, non arriva alla situazione edipica. Tale condizione per i lacaniani impedisce la simbolizzazione, l’accesso al linguaggio, la metafora paterna.
Nel 1936 Lacan fece il suo primo debutto nell’ambiente psicoanalitico francese con una conferenza: “le stade du miroir”, rimase per molto tempo con i freudiani e, nel 1963, fondò ufficialmente la scuola lacaniana, attribuendole il nome di “Ecole freudienne de Paris”; come suoi collaboratori emergono, fra i tanti, M. Mannoni, F. Dolto. S. Lecraire, del quale analizzerò un saggio.
L’importanza degli studi lacaniani appare soprattutto nell’analisi del rapporto fra il soggetto e il linguaggio. Il linguaggio per Lacan genera il soggetto; il linguaggio ha strette connessioni con l’inconscio. Ciò conduce ad una nuova, interessante dimensione del problema dei disturbi relazionali. Se da un punto di vista teorico la sua opera sembra stimolante, essa manca di un aggancio sociale: egli costruisce una teoria, ma più destinata a conferenze e seminari, che a una pratica terapeutica volta all’integrazione del soggetto in analisi. Basti riflettere alla tecnica terapeutica di Lacan: l’analista deve essere neutro, morto, in quanto rappresenta la morte; col suo atteggiamento l’analista deve frustrare il soggetto, affinché possano cadere tutte le false certezze, le maschere. Solo così per lo studioso sarà possibile che il soggetto possa riscoprire la “parola piena”, vera e liberatrice.
La sua è una psicoanalisi aulica, concepita solo per soggetti “intellettualmente esigenti”, facenti parte di una elite socio-culturale di cui anche Lacan faceva parte. Osserva R. Castel in proposito:
“Senza il lacanismo gli psicanalisti sarebbero rimasti soprattutto degli specialisti, spesso pericolosi e pretenziosi come tutti gli specialisti, talvolta inutili. Dopo Lacan, in Francia, troviamo anche degli oracoli che, dalle matematiche alla politica, passando per la linguistica e l’etnologia, legiferano sovranamente su tutto nel nome, suprema civetteria, di un non-sapere” (R. Castel, Lo psicanalismo, Einaudi, 1975, pag. 88).
La psicodinamica delle psicosi: J. Lacan
Per Lacan è essenziale il rapporto tra il soggetto e il linguaggio per mezzo del quale egli si esprime. L’ambiente in cui il bambino nasce è il primo luogo linguistico e solo secondariamente biologico e sociale. Il linguaggio “predispone e genera” il soggetto; il bambino appena nato, e fino al momento in cui non dispone di un Io stabile è “parlato”, non parla. Per l’autore i procedimenti di simbolizzazione propri dell’inconscio sono strutturati in modo analogo ai procedimenti stilistici del discorso; l’inconscio è il luogo privilegiato della parola; l’uomo è schiavo delle strutture linguistiche; egli è l’oggetto, o meglio, il luogo dove il linguaggio si esprime. Lacan analizzò il concetto freudiano di inconscio secondo lo strutturalismo attuale, che si rifaceva a Ferdinand de Saussure e lo applicò alla psicoanlisi. La futura personalità del bambino è modellata dal complesso edipico e dalla struttura stessa del linguaggio. Da questo presupposto nasce l’esigenza di studiare la relazione fra il significante, cioè il mezzo linguistico con cui il soggetto si esprime e il significato. Il rapporto significante- significato si stabilisce proprio attraverso la mediazione dei segni del linguaggio. L’acquisizione dell’uso del linguaggio corrisponde alla costituzione dell’Io del bambino. Il soggetto psicotico non parla, ma è parlato; la sua passività nei confronti del linguaggio è indubbiamente in relazione alla mancanza di un Io ben strutturato. Quest’ultimo problema ci pone di fronte al concetto di “formazione dell’Io”.
Essa non si realizza mai in forma immediata e diretta, ma richiede sempre la mediazione dell’immagine del corpo. Infatti per i lacaniani la psicosi è il risultato di una “destrutturazione dell’immagine del corpo”, vissuta sul piano dell’immaginario. Il corpo, non vissuto come tale, genera il “fantasma” del corpo spezzettato, che è un’immagine comune nei disturbi psicotici e che anche M. Klein descrive. E’ interessante soffermarci sul concetto lacaniano di “stadio dello specchio” presente in tutti i bambini fra il sedicesimo e il diciottesimo mese, stadio il cui superamento porta alla conquista dell’immagine corporea che precede e dà inizio alla strutturazione dell’Io. Il bambino originariamente non vive il proprio corpo come totalità, ma disperso e frammentato; la conquista dell’unità del corpo passa attraverso tre fasi:
- Il bambino percepisce l’immagine riflessa nello specchio come un essere fisico, reale ma essenzialmente un “non Io”, infatti egli cerca soltanto di avvicinarsi a questo “altro” riflesso nello specchio;
- Non tenta più di afferrare l’immagine perché la riconosce come un’immagine qualsiasi, non più come un altro essere fisico;
- Riconosce l’immagine come appartenente a lui e quindi conquista l’identità attraverso l’appropriamento dell’immagine totale del suo corpo.
Queste fasi ci riconducono alla condizione psicotica in cui emerge una mancata identificazione fra il sé e il non sé; inoltre una frammentazione dell’immagine corporea, un’assenza parziale dell’Io contrapposto all’ “altro”, non è un caso che sia più facile instaurare un rapporto (anche solo gestuale) con uno psicotico, parlandogli in terza persona e non nella dialettica Io – Tu.
S.Leclaire e la psicodinamica delle psicosi
S. Leclaire, seguendo il suo maestro, si propone di studiare la relazione fra significante e significato e quella fra soggetto e parola; tutto ciò allacciato alla problematica della terapia delle psicosi. Egli parte dal presupposto che non sia possibile avvicinarsi a tali disturbi partendo dallo studio della nevrosi, al contrario:
“…la psicosi richiede dunque una modalità di psicoterapia che deve trarre i suoi principi da uno studio della intrinseca natura del disturbo psicotico” ( S.Leclaire, psicosi e linguaggio, Venezia, 1978,pag 48).
L’esperienza di realtà è sempre mediata da due operazioni: l’immaginazione e la simbolizzazione. Nelle manifestazioni psicotiche, a causa di un’alterazione profonda, queste due funzioni sono compromesse. Il mondo per il soggetto psicotico perde il senso della prospettiva egli teme di essere schiacciato da cose e situazioni minacciose. Il linguaggio del soggetto psicotico è distorto, in quanto il segno espresso non ha contemporaneamente, come dovrebbe avere, funzione di significante e di significato.
I lacaniani e anche Leclaire insistono sul concetto di Verdraengung (rimozione). Mentre l’eccessiva rimozione genera nevrosi, nelle psicosi si verifica forclusione, letteralmente rigetto, che conduce al delirio e all’allucinazione.. Lacan parla di forclusione del nome del padre per indicare l’impossibilità del bambino (che vive intensamente il desiderio della madre) di identificarsi col padre per mezzo del triangolo edipico; ciò escluderebbe la possibilità di formare simboli e quindi di accedere al linguaggio; la forclusione agisce sul significante e sostanzialmente implica una mancanza.
In sintesi è bene sottolineare quanto sia impossibile avvicinarsi a tali soggetti partendo da schemi mentali, linguistici e culturali tradizionalmente recepiti come “normali”. Sarà opportuno invece assumere un atteggiamento empatico, calandoci nello stato d’animo del paziente; non ultimo, nella giusta distanza emotiva, facendo appello ai propri nuclei psicotici, così lontani, così vicini.