Desidero dedicare questo articolo agli studi sulla schizofrenia di Silvano Arieti, neuropsichiatra, uno dei massimi studiosi del secolo scorso in questo ambito.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo e di apprezzarne il valore professionale quando ancora ero ancora una studentessa universitaria di psicologia, intorno agli anni settanta. Anche se il suo contributo risale a vari decenni fa, comunque presenta aspetti tuttora interessanti e stimolanti per il trattamento di questa patologia, un disturbo psicotico, la cui etimologia ci aiuta a comprenderne la gravità: la parola deriva dal greco schizos, cioè separata e phrenos, mente, che significa scissione dell’Io dalla realtà, perdita del contatto con il mondo reale.
I suoi due volumi “Interpretazione della schizofrenia” (1955) riassumono, gran parte, il nucleo centrale del suo pensiero. Nella sua opera Arieti descrive gli aspetti clinici della schizofrenia, la sintomatologia, la diagnosi e la prognosi; dedica spazio al concetto di ereditarietà, costituzione, biochimica nell’insorgere di questa malattia, senza però trascurare l’analisi dei concetti psicodinamici della schizofrenia, del possibile trattamento psicoterapeutico da lui stesso applicato su personalità schizofreniche.
Arieti afferma che, essendo il soggetto psicotico in primo luogo un individuo, “un caso a sé”, è azzardato parlare di una tecnica psicoterapeutica stereotipata, universalmente valida. In linea di massima possiamo affermare che la terapia della schizofrenia ottiene buoni risultati se mira a:
“…primo, in un’atmosfera caratterizzata da una affettuosa accettazione, da fiducia e dal desiderio di raggiungere il paziente nel suo intimo, l’ammalato è indotto a poco a poco a stabilire rapporti comunicativi con altre persone ed a abbandonare i suoi specifici modi individuali di vivere. Secondo, aumentando la capacità di comunicazione…terzo, mette la coordinazione di tutti questi elementi e il paziente raggiunge un’adeguata stima di sé.” S. Arieti, interpretazione della schizofrenia (p. 401/402).
Le prime sedute di psicoterapia, per Arieti, è bene che siano rassicuranti e si mantengano su un piano neutrale e piacevole affinché il paziente avverta che il terapeuta desidera stabilire un contatto sincero, senza chiedergli nulla. Il silenzio del soggetto va compreso e rispettato; l’analista che pone troppe domande al paziente (ciò può verificarsi nel caso in cui il terapeuta viva in quel silenzio fantasie pregresse di non accettazione non ben elaborate) può essere vissuto come persecutore in quanto all’inizio del rapporto il paziente è in genere diffidente e sospettoso nei confronti del terapeuta. Specie all’inizio sarebbe opportuno che il primo lasciasse la seduta sentendo di aver ricevuto qualcosa dal secondo e non l’opposto, fosse anche la richiesta di una semplice notizia anamnestica, una data, un luogo...
Una volta vinta la diffidenza, sarà egli stesso ad aprirsi, a cominciare a collaborare con il terapeuta. D’altro canto è un atteggiamento estremamente ambiguo, quello che induce l’analista a “fingere” di capire il paziente, quando invece ciò non avviene molto frequentemente in realtà; specie quando quest’ultimo parla confusamente, in modo ingarbugliato, con “insalata di parole”; è in tal caso più opportuno ascoltare e aspettare un momento più favorevole.
“…il terapeuta deve riuscire a condividere lo stato di desocializzazione e di individualismo del paziente. Non si tratta di una vera intuizione, ma di un particolare tipo di comunicazione a livello non verbale, ovvero di una comunicazione verbale primordiale, qualcosa che si può forse paragonare alla comunicazione estetica che l’artista stabilisce con chi contempla la sua opera artistica…”, op. cit. pag.408.
Nella sua opera Arieti affronta anche la problematica delle personalità paranoidi logorroiche che parlano esclusivamente del loro delirio; è opportuno allargare l’ottica della loro visione del mondo, in modo che riescano a capire che esiste qualcosa di diverso “oltre” il loro delirio, qualcosa che, in qualche modo, possa loro interessare. Quando il soggetto vive in uno stato di continua angoscia perché si sente perseguitato e disprezzato da tutti coloro che lo circondano, bisogna che egli riesca a differenziare tale processo in due fasi distinte:
- La prima fase, che precede il delirio stesso, avviene quando il malato si pone in “posizione di ascolto”, cioè si predispone a sentire voci persecutorie; ciò può essere dovuto sia al suo stesso condannarsi (che non viene accettato, perché porterebbe a un processo introspettivo alquanto doloroso), che alle sue valenze aggressive verso le persone che egli poi vive come persecutorie (processo anch’esso inaccettabile);
- La seconda fase subentra quando il malato, non accettando inconsciamente le sue dinamiche, sente le voci che parlano “male di lui”.
“Quando il paziente sarà capace di riconoscere la connessione fra il suo stato d’animo e il suo porsi nell’atteggiamento di ascolto, avrà fatto un gran passo avanti: non vedrà più se stesso nella posizione di passività, ma come una persona che ha molto a che fare con ciò che prova. Se nel momento di porsi nell’atteggiamento di ascolto si accorge che cosa sta mettendo in atto, il malato non è ancora disceso a livello anormale del pensiero paleologico da cui, una volta entrati, è difficile evadere”. (Op. cit. 413,414).
E’ necessario fare una breve parentesi per descrivere cosa Arieti intenda per pensiero paleologico, riferito al processo schizofrenico e che egli include esattamente nel secondo stadio dell’evoluzione schizofrenica. Per lo studioso la schizofrenia si sviluppa attraverso 4 stadi:
- Il primo stadio è caratterizzato da uno stato di ansia e vulnerabilità a cui la personalità schizofrenica non sa far fronte; non si avverte una profonda regressione, ma una netta e marcata scissione fra la realtà e il mondo dei sintomi del soggetto.
- Nel secondo stadio non esiste più dicotomia fra i due mondi del soggetto, ma una profonda regressione ad un mondo “arcaico”, in cui predomina il pensiero paleologico e la desocializzazione; il soggetto accetta adesso il suo stato, ma l’ansia è ancora vigile ed è quindi necessaria una regressione più severa.
- Nel terzo stadio prevalgono le abitudini più primitive; la volontà del soggetto è sempre più debole.
- Quarto stadio: il soggetto reagisce prevalentemente solo come organismo neurovegetatitvo.
Per Arieti la personalità schizofrenica è incapace di pensare secondo la logica aristotelica, che si suppone sia quella per cui le persone sono capaci di elaborare processi discriminativi e di identità (principio di identità, non contraddizione, terzo escluso, ragion sufficiente), al contrario il soggetto elabora solo un pensiero paleologico; di fronte all’ansia regredisce a livelli di integrazione inferiore. Il pensiero paleologico si basa sul principio enunciato da Alexander Von Domarus (1881- 1945) della identità dei predicati e non dei soggetti. E’ il pensiero tipico dei bambini e presente nei popoli primitivi.
Arieti a tal proposito introduce un esempio estremamente chiaro e pertinente:
“Una malata credeva di essere la Vergine Maria. Il procedimento del suo pensiero era il seguente: La Vergine Maria era vergine; io sono vergine, perciò io sono la Vergine Maria. La conclusione delirante fu raggiunta perché l’identità del predicato delle due premesse (lo stato di verginità) fece accettare alla paziente l’identità dei due soggetti (La Vergine Maria e la paziente)” op. cit. op. cit. 480.
La relazione psicoterapeutica fra lo specialista e il paziente schizofrenico si presenta estremamente complessa, anche nei casi più favorevoli in cui sembra che essa possa iniziare; è difficile e molto faticoso per il terapeuta proseguirla, soprattutto per il problema del transfert del paziente verso il terapeuta che non è assolutamente facile instaurare e comunque per la sua eccessiva ambivalenza e, dall’altra parte, per il controtransfert dello specialista verso il paziente. La relazione terapeutica mette a dura prova entrambi, ma forse assai di più lo specialista se lavora con impegno e serietà!
In questo quadro variegato ed estremamente complesso è essenziale che lo psicoterapeuta mantenga un rapporto empatico, accogliente, e soprattutto rispettoso dell’altro che gli è di fronte e, senza dire niente, gli chiede aiuto e conforto.