Durante le feste natalizie non è raro udire persone adulte esclamare con un senso di profonda di liberazione:
“Oh, finalmente, è trascorso anche questo Natale, così come anche il primo giorno del nuovo anno se n’è già andato; manca ancora solo l’ultima festa dell’Epifania e alla fine tutto è finito!”
Ecco che, una volta trascorse tutte queste ricorrenze, si potrà riporre l’albero, il presepe, la ghirlanda appesa fuori dalla porta e anche i regalini, alcuni dei quali ancora infiocchettati, ma da riporre con cura quasi come un feticcio, per riciclarli forse alla prossima occasione, in alcuni casi per il compleanno di un amico o forse addirittura per le prossime vacanze pasquali.
Nella maggior parte dei casi questo atteggiamento emotivo nei confronti delle feste natalizie deriva in parte da una specie di “dipendenza psicologica”, nata da un’ “assuefazione passiva” nei confronti di un cliché comportamentale ormai consolidato nel tempo. La motivazione inconscia è spesso quella di restare ancorati a una tradizione che non è più legata a dei valori ritenuti significativi, ma che comunque rimane una consuetudine che continua ad evocare un senso di appartenenza a un modo di percepire il Natale e le relazioni legate al passato, vissute nell’infanzia, quando ancora si attendeva con trepidazione la festa e con essa anche il dono desiderato. Si tratta quindi di “rimanere ancorati” a un’appartenenza, a un qualcosa che esiste tuttora ed è condiviso dalla grande maggioranza delle persone, ma con un senso completamente diverso. La dinamica inconscia che soggiace a tutto ciò è quella di colmare un vuoto, di trovare un escamotage che dia giustificazione al nostro agire troppo spesso congestionato, distratto e superficiale. Semplicemente è festa, quindi festeggiamo tutti nel modo migliore che possiamo, anche se, in fondo, ci sfugge il perché.
Il dono dovrebbe essere espressione, come metacomunicazione, di un gesto affettivo, di un invito comunque a instaurare o mantenere una buona relazione, più o meno intensa. Ma purtroppo questo intento è in qualche modo spesso “mercificato”, passa esclusivamente attraverso un oggetto e nella maggior parte dei casi, giunge, a chi lo riceve, solo come un cadeau anonimo. In molte occasioni e con tante persone preferiamo consegnare l’oggetto piuttosto che condividere insieme a loro una cena, o semplicemente prendere un caffè, seduti a un tavolino, perché ciò risulterebbe troppo faticoso. E’ quasi inevitabile notare che da una parte si registra una fuga dalla relazione camuffata dal dono e dall’altra un senso di vuoto che ci spinge a colmarlo con il pacchetto stesso.
Ciò che manca è un’elaborazione dei nostri agiti.
Durante le vacanze natalizie si ritorna tutti un po’ bambini, trascinati emotivamente dalle luci, dai colori sgargianti, dai canti e dalle canzoni tipiche di quel periodo, che ci invitano a lasciarci andare a festeggiamenti e ad un’attesa di cui abbiamo perso le origini e le radici, ma che continua, ogni anno, ad esercitare il suo fascino. Un po’ come le sirene per Ulisse: nonostante ripetiamo a noi stessi che quest’anno non subiremo questo condizionamento, ciò continua ad accadere, con la stessa pedissequa metodicità. Questo è un comportamento sociale che sicuramente è favorito e incoraggiato dalla pubblicità, dall’imperversare martellante dei mass-media, e dai giornali stessi. Come se, senza regali, non ci sentissimo con le carte in regola, come se mancasse qualcosa di essenziale al raggiungimento del nostro benessere. Il Natale si associa quasi automaticamente al pacchetto da ricevere o da donare. Come manifestazione di affetto, a volte di gratitudine, altre volte addirittura soltanto per ingraziarsi i favori di qualcuno. Durante il Natale, è verissimo, si ritorna ad essere bambini, ma anche robot che, senza alcuna consapevolezza, spendiamo tutta la tredicesima (e a volte non è sufficiente) per cenoni luculliani, per viaggi all’insegna del divertimento ad ogni costo oppure, per i più modesti, solo per comprare, impacchettare, consegnare doni. Persino durante la Vigilia del Natale, momento magico, che meriterebbe riflessione, silenzio, sospensione dal tempo cronologico, si nota per le strade, fino a tarda sera, un brulichio di persone cariche di borse piene di pacchetti, da far pervenire a destinazione. Non due o tre doni, ma spesso molti, per cui il tempo da trascorrere insieme alle persone a cui i doni sono destinati, è breve e frettoloso.
Qual è il senso profondo di questo nostro comportamento?
Da un punto di vista emotivo, come sopra accennato, da una parte questo agire esprime il desiderio di essere o rimanere in relazione con gli altri e il dono è lo strumento che attesta questo bisogno, dall’altra però, se “pensato” solo come dono da offrire o da ricevere, perché, appunto, è Natale (senza che il Natale stesso assuma un valore significativo), rischia di restare fine a se stesso, un gesto formale, senza che esso aggiunga qualcosa di rilevante a quella relazione. Nel peggiore dei casi, e non è raro, rischia di essere un atto insulso, frutto di una mentalità basata sul consumismo.
Che cosa significa il Natale per la maggior parte delle persone che si accinge a festeggiarlo?
Il dono, spogliato dal senso stesso che lo legittima, quale valore assume all’interno di una relazione?
Penso che, in molti casi, ricondurre il Natale al significato profondo per cui viene celebrato, metta in profonda crisi il senso del dono stesso.
La nostra tradizione cattolica ci ricorda che il Natale è la festa religiosa e culturale che commemora la nascita di Gesù: nato al freddo, in una mangiatoia, perché non accolto altrove; riscaldato dal respiro di un bue e di un asinello.
Quanto ci siamo distaccati da questo senso?
Questo nostro atteggiamento mentale produce un benessere emotivo o rischia di allontanarci sempre di più dalla tensione autentica verso una buona e sana relazione con noi stessi e con il prossimo?