Molti anni fa venne nel mio studio una giovane ragazza di 21 anni alla quale (attraverso il medico di base e successivamente attraverso il servizio psichiatrico di zona) era stata diagnosticato un disturbo da ansia sociale (300.23), o fobia sociale.
Dall’insorgere del disturbo (circa un anno) la qualità della vita della giovane sembrava compromessa. In seguito a un episodio alquanto traumatico vissuto qualche anno prima ella aveva lentamente ridotto i suoi contatti con il mondo esterno, limitandosi, per quanto le fosse possibile, di esporsi in pubblico e di entrare in relazione con il mondo esterno. Ella riusciva, con enorme fatica, ad adempiere ai suoi obblighi scolastici continuando a frequentare l’università (era iscritta al secondo anno di filosofia), ma in posizione estremamente defilata. In aula cercava sempre di sedersi isolata dal gruppo dei suoi compagni di studio e possibilmente vicino alla porta di uscita. Eccelleva nello studio, perché era dotata di una viva intelligenza e motivata ad approfondire le materie di esame, ma evitava il più possibile di entrare in contatto con i compagni e anche con i professori. Era terrorizzata dal timore di arrossire e di essere considerata ridicola, una persona inadeguata, sciocca. A capo basso Laura, nome di fantasia, entrava in aula, cercando il posto in cui sedersi che le permettesse di rimanere inosservata e di poter “fuggire” dall’aula appena i segni premonitori del suo disturbo si fossero presentati. Questo accadeva anche solo in previsione di dover rispondere a una semplice domanda del tipo: “Scusa, hai una penna da prestarmi?” Un terremoto emotivo si scatenava dentro di lei fino a restare, da un punto di vista emotivo, letteralmente paralizzata sulla sedia. In quei casi riusciva a malapena a balbettare qualcosa e a scuotere orizzontalmente la testa per esprimere un secco “no”. Questo per evitare che la penna le fosse poi restituita e la giovane avrebbe dovuto ulteriormente interagire. Il timore poi di arrossire le creava un forte imbarazzo perché avrebbe reso palese a tutti il suo coinvolgimento emotivo. (L’eritrofobia è un disturbo che sovente si associa alla fobia sociale). Questo pensiero del “tutti contro uno” era diventato una costante delle sue elucubrazioni. “Tutti” rappresentava un gruppo anonimo e coeso nell’evidenziare le sue lacune e la sua inadeguatezza. Eppure nei momenti di lucidità pensava fra sé: “Per così poco? Mi butto giù per nulla!” Ecco che si avviliva, la sua autostima precipitava vorticosamente in basso. Palpitazioni, tremore, balbuzie, sudorazione, tensione muscolare erano alla porta e la paura che gli altri se ne potessero accorgere (e per questo fosse giudicata sciocca e goffa) innescava un meccanismo di evitamento che, come in un circolo vizioso, peggiorava la qualità delle sue relazioni spingendola a optare per un isolamento severo. Una vera e propria prigione emotiva. L’ansia anticipatoria, rispetto a situazioni che verosimilmente avrebbe dovuto affrontare, condizionava i suoi spostamenti e le sue decisioni su dove andare e come presentarsi. La povera Laura riconosceva che tutto ciò era eccessivo e assurdo, ma non ci poteva fare niente e per questo motivo, non sapendo che cosa le stesse accadendo (temeva di perdere il controllo della sua vita, di impazzire), si era rivolta al medico di base e poi al servizio psichiatrico. Era in cura farmacologica, assumeva ansiolitici per fronteggiare l’ansia. In parte era riuscita ad arginare il problema, ma in parte esso persisteva e per questo, dietro suggerimento dello psichiatra stesso, si era rivolta a me per seguire un percorso di psicoterapia individuale.
Di aspetto piacevole, alta, slanciata, aveva le spalle che si ripiegavano leggermente in avanti, come per nascondere il suo seno prorompente. Capelli raccolti in una crocchia, acconciatura che contribuiva a farla sembrare più anziana, lo sguardo abbassato come per nascondere due occhi grandi celesti che avrebbero voluto esprimere tante cose, ma che si limitavano a fissare il pavimento e di tanto in tanto a far uscire delle lacrime che disperatamente cercavano di “fare marcia indietro”. Il suo corpo, la postura ricurva e la distanza eccessiva che imponeva davanti a un’altra persona raccontavano tutto di lei. Pur dandole del lei pensai che fosse opportuno chiamarla per nome, sottolineando che si trattava di lei, Laura, unica e inimitabile. Lei persona, adesso in relazione con me. Lentamente, nel corso delle sedute, emersero i fatti salienti che avevano contribuito all’insorgere del disturbo, i legami con la famiglia di origine e una certa familiarità ad affrontare le relazioni esterne. Purtroppo il sintomo di chiusura verso l’esterno era ormai entrato subdolamente nel suo quotidiano compromettendo gran parte della vita di relazione di Laura; era anche aumentato il livello di autocritica, con l’effetto di sentirsi inadeguata ovunque si presentasse in pubblico. Temeva di essere giudicata e per questo aveva assunto un comportamento sempre più evitante che si rifletteva nella postura rigida e difensiva. Laura aveva cominciato a fare moderato uso di alcolici per sentirsi più disinibita e per cercare di arginare il suo senso di inadeguatezza. L’ansia anticipatoria la frenava dal mettere in atto qualsiasi tentativo per sbloccare questa situazione. Durante varie sedute lavorammo insieme per riconoscere i suoi “pensieri automatici” e quei comportamenti disfunzionali che impedivano alla giovane di svolgere una vita sociale piena. Era necessario che Laura allentasse i meccanismi difensivi da lei stessa messi in atto e inconsciamente ben architettati e che entrasse nella relazione terapeutica, creando un’alleanza volta a costruire un rapporto solido in cui ella potesse fidarsi di me. Per favorire un recupero possibilmente veloce delle sue potenzialità intravidi la possibilità, oltre al percorso di psicoterapia, di attivare qualche altra risorsa a cui la ragazza potesse attingere per fronteggiare l’ansia. Data la giovane età, la sua immagine graziosa e il suo desiderio forte di liberarsi di questo problema, in accordo con lo psichiatra che Laura continuava a vedere circa ogni 2 mesi per l’aspetto farmacologico, le suggerii di iscriversi a un corso di ballo, qualunque ballo, purché le piacesse o per lo meno la incuriosisse senza metterla in crisi. Laura da bambina aveva frequentato per un anno, con profitto e passione, un corso di danza classica che aveva dovuto interrompere per una brutta caduta. Scelse un corso di balli di gruppo perché lo ritenne il meno impegnativo e soprattutto perché non comportava il contatto diretto e stretto con un’altra persona.
Pensai che fosse la strada giusta da percorrere e in psicoterapia, durante le sedute, avremmo analizzato le sue reazioni emotive. Quattro fattori avrebbero agevolato il recupero.
- La musica a cui lasciarsi andare per seguirne il ritmo e così combattendo le rigidità muscolari che dipendevano dal suo rifiuto inconscio a ogni tipo di cambiamento.
- Il movimento del corpo nello spazio che favoriva un equilibrio statico ed emotivo, dando spessore al suo corpo, facendolo sentire finalmente protagonista.
- Lo specchio che rifletteva la sua immagine e che la invitava a notare le rigidità e a sciogliersi, cioè a lasciarsi andare, abbandonando il suo bisogno di controllo.
- La relazione con il gruppo che, anche se il ballo era individuale, la portava a stare con gli altri e a stabilire con loro un contatto.
Non ero certa delle reazioni di Laura e dei meccanismi difensivi che avrebbe messo in gioco inconsciamente, ma valeva la pena tentare.
Le prime volte la ragazza si mostrava impacciata e si rifiutava di guardare la sua immagine riflessa nello specchio. Gli abiti indossati erano ampi e volontariamente scelti con cura per “apparire” il più possibile anonima e restare inosservata. Sceglieva di ballare nell’ultima fila e naturalmente vicino alla porta di uscita. Con ironia e a volte sorridendo mi descriveva in seduta il suo comportamento e sembrava che niente dovesse cambiare. La pazienza e la fiducia in ciò che di positivo può avvenire in una relazione sono ingredienti fondamentali per un terapeuta. Io non avevo fretta di assistere all’evoluzione di questa esperienza di Laura, semplicemente l’accompagnavo. L’unica protagonista era lei e il suo corpo, corpo persona che aveva il desiderio, nonostante i suoi tentativi disfunzionali, di esprimersi attraverso la danza. Trascorsero varie sedute in cui Laura non mollò mai, né il ballo né la psicoterapia. Sarebbe potuto avvenire, ma non fu così. La svolta avvenne quando ella si rese conto che il suo corpo era una parte viva della sua persona, non oggetto da sfruttare o da mortificare, ma parte di sé che soffriva e gioiva con lei, per lei…Laura era anche il suo corpo, non aveva un corpo, (Gabriel Marcel, Essere e avere, 1935) esso vibrava con lei, facendosi carico della sua sofferenza. Il suo corpo non meritava di essere umiliato ulteriormente. Adesso la giovane se lo poteva permettere. Stava realizzandosi la trasformazione da crisalide a farfalla. Via la tuta goffa blu scuro, di una taglia più grande della sua, via l’espressione triste e avvilita, il suo sguardo poteva finalmente incrociare con ammirazione la sua immagine riflessa nello specchio. Con stupore e incredulità Laura aveva ricominciato a sorridere, non più in fondo alla sala, ma in prima fila, proprio di fronte a sé stessa.
“Io sono soggetto del mio corpo; io vivo il mio corpo; io esisto il mio corpo; il mio corpo è il mio modo di essere.”
(Xavier Lacroix, Il corpo di carne , la dimensione etica, estetica e spirituale dell’amore)