In diversi articoli ho già descritto il disturbo di ansia inquadrandolo da un punto di vista diagnostico e di trattamento psicoterapeutico. Vorrei adesso esporre il caso di una paziente con cui ho intrapreso in passato un percorso di psicoterapia.
Il punto di partenza è lo stesso esposto nei precedenti scritti e si riferisce ad un concetto essenziale dal punto di vista clinico: l’ansia, oltre a presentarsi come un disturbo che causa una considerevole menomazione del funzionamento sia sociale che lavorativo, è “amica” in quanto funge da campanello di allarme di qualcosa da scoprire di noi che ancora giace silente nei meandri del nostro inconscio e che comunque preme per venire in superficie e per essere accolto. Ansia “amica” dunque che ci mette in guardia: il puzzle della nostra esistenza che, con cura e determinazione di controllo, abbiamo composto non corrisponde alle nostre esigenze, ai nostri bisogni, ai desideri più intimi. Qualcosa di dissonante stride e ci obbliga a rivisitare le regole, i ritmi, i pensieri automatici che governano frequentemente il nostro quotidiano. Senza alcuna consapevolezza di ciò che non vada bene nella propria esistenza si avverte un forte disagio interiore, una pesantezza, una mancanza di progettualità che riesca a dare senso alle fatiche e all’operare di ogni giorno. A volte è una morsa soffocante che induce a chiudersi in se stessi, altre volte si esprime con un’iperattività sfiancante che spinge a una coazione ad agire perpetua, senza possibilità di fermarsi perché, se ciò si verificasse, velocemente saremmo intrappolati dai sintomi dell’ansia. Altre volte ancora l’ansia insorge in modo prepotente impedendoci di raggiungere gli obiettivi stabiliti. Ecco che non riusciamo a guidare l’auto, ad uscire da soli lontano dalla propria abitazione, a prendere un mezzo pubblico affollato, o semplicemente a trascorrere una piacevole serata con gli amici. Si innesca uno stato emotivo angosciante che obbliga a evitare ogni tipo di relazione, a volte anche con le persone amate. Ho conosciuto persone che, per l’impossibilità di uscire da questa prigione emotiva, hanno perso il lavoro, alcuni sono stati lasciati dal partner o hanno perso gli amici, anche gli affetti più cari. E’ un vicolo cieco in cui il soggetto entra e in cui non intravede la via d’uscita, il minimo spiraglio di luce. E’ uno stato d’animo estremamente doloroso perché colpisce pesantemente l’autostima della persona che si trascura non raramente fino a tralasciare le più semplici cure igieniche del corpo. A tal punto è auspicabile che il soggetto intraprenda un percorso di psicoterapia che, in genere in un anno, riesce a mettere in evidenza le motivazioni che hanno concorso a creare il disturbo, a elaborare le dinamiche che hanno condizionato questo stato d’animo, ad analizzare i meccanismi di difesa che hanno impedito tale elaborazione e infine a individuare le prospettive progettuali di vita, la luce in fondo al tunnel. Per fare questo lavoro è necessario scomporre momentaneamente il puzzle e ricomporlo successivamente in base ai bisogni autentici della persona. E’ necessaria una buona dose di coraggio e di fiducia nella vita, di curiosità sana in tutto ciò che ancora non è, ma che può divenire, a qualsiasi età, in qualsiasi condizione di vita.
Anna, nome di fantasia, è una donna di 55anni, sposata, senza figli. Il disturbo di ansia si è presentato essenzialmente nella difficoltà a controllare ogni tipo di preoccupazione, irrequietezza, eccessiva affaticabilità, vuoti di memoria e difficoltà a concentrarsi. Osservando la sua postura si nota nella donna un’eccessiva tensione muscolare; la paziente accusa anche un’alterazione del sonno con difficoltà ad addormentarsi e con vari risvegli notturni. Anna svolge da trenta anni la professione di insegnante in una scuola primaria. E’ stimata da tutti i colleghi e i bambini l’adorano. Ella riesce a compiere il suo lavoro con competenza e dedizione totale. Il marito, in pensione, l’accompagna a scuola in auto tutti i giorni perché Anna non è più capace di guidare, neppure con una persona accanto a lei. L’uomo la sostiene e l’accompagna periodicamente dallo psichiatra da cui è in cura da diversi mesi per un Disturbo d’Ansia Generalizzato. Il marito ha assunto il ruolo di infermiere di Anna, le somministra la terapia per paura che ella si dimentichi di attenersi alla corretta terapia farmacologica prescritta. La donna assume ansiolitici e un antidepressivo. Il quadro clinico in questo periodo di trattamento è leggermente migliorato, non registrando più sintomi particolarmente invalidanti, ma la paziente sta ancora male, non è autosufficiente, teme i contatti con i colleghi, ella si trova a suo agio solo con i bambini a cui dedica tutta sé stessa. Ha perso interesse sessuale per il partner che ella considera alla stregua di un fratello maggiore.
Dietro suggerimento dello psichiatra la donna iniziò con me un percorso di psicoterapia. Un anno di lavoro intenso in cui Anna, da donna intelligente e sensibile quale era, si mise in discussione, rivisitando la sua vita con coraggio e pazienza. Emersero molti fattori che avevano contribuito ad attivare vari meccanismi di difesa (soprattutto negazione e spostamento) per proteggersi dalla sofferenza: la sua sterilità, la lontananza dalla famiglia di origine, i sensi di colpa per non aver assistito la madre in punto di morte in quanto Anna viveva lontana dalla casa paterna, ma soprattutto avvertiva la nostalgia per la sua terra d’origine, il profumo del mare che aveva sempre amato. Da anni viveva in un paesino dell’Appennino e il mare non l’aveva più visto. Il richiamo alle radici era sempre stato forte, ma la paziente fino ad allora non aveva mai messo in discussione di poter tornare nella sua Campania, magari abitando proprio in una casa sul mare. Fu un’esplosione di gioia quando, insieme al marito, fu prospettata, da lui stesso in seduta, questa possibilità. Fu per lei un fulmine a ciel sereno, come ritornare finalmente adolescente ricominciando, ancora una volta, tutto dal principio. La vita le sorrideva di nuovo perché ciò che aveva sempre amato era ancora lì, niente era perduto. Finalmente avrebbe lasciato gli angusti monti tetri dell’Appennino, dove il sole faticava a penetrare fra le possenti querce; le distese di acqua cristallina della sua terra erano ancora là ad attenderla. Insieme al marito Anna si sentì pronta finalmente ad aprirsi nuovamente alla vita. Poiché il cambiamento in molte situazioni esistenziali è sinonimo di una autentica rinascita la paziente concluse serenamente anche il percorso di psicoterapia.