Questa è la domanda tipica di una persona che soffre di attacchi di panico e che nella maggior parte dei casi non si rende conto del perché la sua vita venga improvvisamente stravolta da questo sintomo così irruento, aggressivo che in un attimo scompiglia tutti i suoi programmi.
In genere questo tipo di persona appare discretamente efficiente, capace di programmare la sua vita e spesso anche quella di coloro che le stanno accanto. Questa persona è intelligente, razionale, spesso intraprendente. Ama che le siano riconosciute le sue capacità, e che venga apprezzata all’esterno. Esercita un pressante autocontrollo sulle sue pulsioni, appoggiandosi su regole e convinzioni comuni di ciò che è considerato adeguato, corretto, accettato dai benpensanti. Apparire “a posto” secondo il proprio senso del dovere accompagna e scandisce le scelte e lo stile di vita di queste persone. Questo atteggiamento mentale contrasta spesso con i bisogni intimi e autentici del soggetto, per cui, per rimanere fedele al ruolo che si è prefisso di svolgere, egli indossa una maschera che nasconde il suo vero essere e sentire. L’energia vitale si restringe per lasciare posto a ciò che deve essere continuamente ribadito. Il dialogo con il proprio mondo interiore si restringe a tal punto fino a trascurarlo del tutto identificandosi inconsapevolmente con la maschera che egli esibisce all’esterno. Per lui è pressoché impossibile accogliere l’ambivalenza insita non solo in lui, ma in ogni essere umano, il chiaro e lo scuro, eros e thanatos, aspetti invece che vanno integrati e messi in continuo dialogo per vivere in armonia con sé stessi. Ecco perché le persone, quando iniziano un percorso di psicoterapia, la prima cosa che dicono è che sono spaventate da questi attacchi di ansia acuta in realtà dolorosi (fibrillazioni, tachicardia, svenimenti, sudorazione, respiro corto…) improvvisi che non hanno ragione di essere perché la loro vita è perfetta o perlomeno più che accettabile. Essi vivono il sintomo come qualcosa di estraneo alla loro realtà, qualcosa di estremamente invasivo e “maligno”. Essi vivono in uno stato di profonda prostrazione poiché, identificandosi passivamente con questa condizione di sofferta accettazione del “nemico vincente”, che quando entra non bussa ma irrompe violentemente, non intravedono alcuna via di uscita, si sentono in trappola, e per questo sono angosciati. Iniziando un percorso di psicoterapia è auspicabile partire da un presupposto: il sintomo, pur fastidioso che sia, non è esterno alla realtà psichica vissuta dal soggetto, ma da essa generato. E’ una parte stessa della persona che produce il sintomo per cui è essenziale non contrastarlo, né sedarlo, ma ascoltarlo, lasciandolo entrare nella propria vita reale perché esso vuole esprimere qualcosa di importante. Nella prima fase della psicoterapia è quindi essenziale entrare in contatto con il sintomo, senza timore. Il sintomo chiede di essere ascoltato rivisitando la propria storia e osservando con maggiore attenzione e profondità il puzzle che è stato costruito della propria esistenza…probabilmente sono stati incastrati a forza uno o più pezzettini. Si tratta quindi di scomporre momentaneamente il puzzle sapientemente assemblato e con pazienza è necessario porsi tante domande dove prima, affrettatamente, si era creduto di trovare “comode” risposte.
Il primo esercizio da fare consiste nel prendere nuovamente contatto con il proprio corpo. Il corpo non è solo carne, ma è anima, intelligenza, sensibilità. Se lo ascoltiamo esso comunica e si sintonizza perfettamente con lo stato d’animo vissuto. Soprattutto la respirazione diaframmatica è un esercizio che, oltre ad allontanare lo stress, mette in stretto contatto con il proprio mondo interiore. Un buon approccio può partire dall’esercizio della calma che anticipa i sei esercizi del training autogeno. Il training autogeno non è proponibile indiscriminatamente a tutti, ma l’esercizio della calma sicuramente è possibile proporlo con tranquillità e aiuta il soggetto a trovare una dimensione di sé più solida e profonda. E’ una forma di rilassamento psicofisico che necessita di un ambiente silenzioso, in penombra. Il soggetto non deve essere pressato da impegni da adempiere a breve, né deve essere disturbato da persone al momento vicine, in un abbigliamento comodo senza niente che stringa o comprima il corpo. Egli si distende sul letto e con un guanciale dietro alla testa, con le gambe leggermente divaricate e le punte dei piedi che cadono mollemente all’esterno, chiude gli occhi e prende contatto visivo con la muscolatura striata e liscia (rappresentandola per mezzo dell’immaginazione), partendo dai piedi fino al volto. Il soggetto osserva, ad uno ad uno, tutti i muscoli del suo corpo, dicendo a sé stesso che essi sono rilassati e completamente decontratti. Lasciandosi andare all’ascolto del corpo le spalle e soprattutto la zona mandibolare si rilassano, allentando ogni tensione muscolare che, come è ovvio, fa capo a una tensione psichica. In tale condizione il soggetto percepisce da subito un estremo rilassamento e benessere. L’ostacolo maggiore per un completo rilassamento è dovuto ai pensieri automatici che invadono la mente del soggetto e lo distraggono dall’obiettivo da raggiungere, cioè il rilassamento psicofisico e la consapevolezza di sé. Pensieri disturbanti tipici sono per esempio:
Che cosa faccio da mangiare dopo? Dove vado al cinema stasera? Ma a che ora viene Mario?... Ma che cosa ci faccio qui? Sto perdendo tempo!
Questi o pensieri simili rappresentano la difficoltà maggiore che si può superare con un allenamento costante. Deterrente potente è la mentalità comune che identifica l’efficienza e la positività della vita di una persona con il suo essere attivo, in movimento fisico e intellettivo…ma qui, con questa pratica, si rema contro corrente. Prima di agire bisogna essere, essere in quanto essere consapevoli di sé, a partire dal proprio corpo che ci indica lo stato di benessere che stiamo vivendo; il corpo è il nostro amico fedele che spesso trattiamo alla stregua di un oggetto da riempire, svuotare, esibire, marcare con i tatuaggi. Ma non è solo così…il corpo è persona, noi siamo il nostro corpo (Gabriel Marcel) e non abbiamo solo un corpo, ma siamo il nostro corpo. Questo significa che esso soffre con noi diventando spesso, come nel caso di insorgenza di attacchi di panico, il capro espiatorio di una condizione psichica sofferente. Assumendo questa nuova consapevolezza la tensione si abbassa e cede il posto a una serena, curiosa, benevola osservazione di sé.